“Squadra che vince non si cambia” recitava così Vujadin Boškov, il vulcanico allenatore di calcio che durante la sua carriera si distinse per le frasi sintetiche ed ironiche.
Abbiamo preso in prestito una delle sue massime per annunciare il ritorno del SofàSoGood, il format dedicato al mondo della comunicazione nell'era del digitale, in cui dei professionisti del settore si accomodano sul divano vintage dell’Impact Hub di Reggio Emilia e raccontano le professioni del domani.
Il primo appuntamento è per Giovedì 25 Ottobre alle 18:30. Parleremo di User Experience in compagnia di Simone Giomi autore del libro “#UX DESIGNER Progettare l’esperienza digitale tra marketing, brand experience e design” edito da Franco Angeli ed Elena Codeluppi, co-founder dell’agenzia di comunicazione Btwofactory, docente e project manager.
Il tema è di quelli particolarmente stimolanti, così per fare un po’ di riscaldamento abbiamo chiesto a Simone di rispondere a quattro domande:
Quella dello user experience designer è una dicotomia. Ogni giorno lavori sui contenuti e sulle percezioni che questi avranno sulle persone e subisci, come qualsiasi altro consumatore, le esperienze create da altri. Come vivi questo duplice rapporto con la UX?
« È proprio vero: lo user experience designer vive inevitabilmente la dicotomia progettista/fruitore e le distorsioni professionali sono all’ordine del giorno. Mi capita spesso di stressare amici e conoscenti con esclamazioni del tipo “non era affatto chiaro che dovessi tirare qui per aprire!” riferito ad una confezione di biscotti, oppure “questo sì che è un sistema di rappresentazione dell’informazione comprensibile!” al momento di trovare il posto sul treno.
Facciamo esperienze ovunque: in una app dello smartphone o di fronte a una macchinetta dei parcheggi, con una smart tv o sfogliando un giornale cartaceo. In tutte queste situazioni è per me impossibile avere un occhio neutro e ingenuo sull’esperienza, perché mi viene spontaneo pensare a come si sarebbe potuto fare meglio, o, nei casi positivi, riconoscere una progettazione ben riuscita.
Nonostante tutto riesco ancora a godermi con sufficiente distacco una buona esperienza d’uso. A questa sensazione, anzi, si aggiunge anche una seconda dimensione di soddisfazione per un lavoro ben riuscito da parte dei progettisti. Diciamo che sono passato dal semplice “wow” ad un più riflessivo “i designer hanno fatto davvero un bel lavoro”. »
In pratica di che cosa si occupa uno UX designer e quali competenze bisogna avere per fare questo mestiere?
« Lo UX designer è un profilo che possiede competenze sia tecnologiche che umanistiche. Come sosteniamo nel libro questa professione offre il suo meglio quando è messa nelle condizioni di agire sui diversi piani della progettazione: l’analisi iniziale, sia lato utente che lato business, la fase di mappatura dei contenuti, quella di concept design e di prototipazione, la progettazione visuale e il micro-copy e infine i test con gli utenti.
Per poter affrontare con competenza tutti questi momenti del design servono conoscenze teoriche e skills operative trasversali, che spaziano dai concetti della psicologia cognitiva e della comunicazione, all’abilità nell’osservazione e comprensione dei comportamenti degli utenti, dalla conoscenza delle best practices di usabilità fino alla sensibilità per i dettagli di tipo più strettamente grafico e di identità visiva. »
Avete definito questo lavoro una intersezione tra il marketing, la comunicazione e il design. Quali tecniche si usano per realizzare l’esperienza dell’utente e quali leve bisogna utilizzare per arrivare all’esperienza perfetta? Ammesso che questa esista.
« L’esperienza perfetta non esiste, fosse solo per il fatto che non è possibile far vivere a tutte le persone le stesse identiche emozioni e sensazioni di fronte allo stesso prodotto. Esistono però pratiche consolidate per rendere prodotti e servizi apprezzabili e usabili a pubblici anche molto generalisti. Inoltre bisogna tenere presente che lo scopo dell’experience designer è quello di saper coniugare l’interesse “d’uso” dell’utenza finale con quella più “di vendita” dei clienti.
Nel nostro lavoro ci troviamo spesso a compiere un intrigante esercizio di compromesso tra questi due punti di vista. Per raggiungere questo risultato mettiamo in pratica le tecniche più diffuse e consolidate della disciplina insieme ad un po’ di estro creativo.
Laddove possibile cerchiamo di applicare la metodologia dall’inizio alla fine: ricerca sugli utenti (interviste, personas, scenari), progettazione partecipativa (concept design e prototipazione rapida) e valutazione con gli utenti (test di usabilità o verifiche esperte). Inoltre cerchiamo sempre di rendere attivo il cliente nella costruzione di questa esperienza, condividendo con gli stakeholder ogni avanzamento e mettendo sempre in conto diversi cicli di rework e affinamenti verso il risultato migliore. »
Nel libro si parla di questa come “l’era della digitalizzazione esperienziale”, secondo te in quali scenari si opererà nel prossimo futuro e che impatto avrà la tecnologia nella costruzione delle relazioni tra i brand e le persone?
« La tecnologia sta impattando sulle relazioni tra brand e persone ormai da anni, ma allo stesso tempo rimane sempre un mezzo per comunicare valori, contenuti e servizi. Quello che stiamo notando è che la tecnologia sta facendo sempre più spazio all’esperienza, vale a dire che i designer sono sempre più bravi a mettere in primo piano gli obiettivi finali delle persone e a subordinare ad essi la tecnica e gli strumenti per raggiungerli.
È per questo che assistiamo, fortunatamente, a interfacce sempre più essenziali e orientate ad estetiche minimal, alla riduzione di (spesso inutili) effetti speciali, alla diffusione di un linguaggio di interfaccia sempre più informale e diretto. Il futuro sarà sempre più una tecnologia che nella forma e nella sostanza si metterà a servizio delle persone e delle aziende. »
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